Il Libraio di Selinunte

Pagina 3La mia città non si chiama Selinunte, anzi, non si chiama proprio.
Si chiamava così una volta, quando alle cose corrispondevano nomi.
Oggi qui non si comunica piú a parole, ma a codici; a volte semplici, a volte complessi, fatti di segni mischiati a segni.
Le esigenze primarie (che so io, «ho fame», «vieni da me», «ci vediamo domani», «non te lo vendo», «ti odio») non sono poi cosí difficili da far capire e quindi la vita va avanti piuttosto normalmente, a parte qualche goffo equivoco, che resta comunque confinato qui: poco danno, visto che dalla città non usciamo quasi piú da tempo immemorabile, un po' per vergogna, un po' perché non riusciremmo a intenderci col resto del mondo.
Ce la caviamo. Di solito si mantengono gli impegni e non si equivoca sulla persona da sposare.
I bambini si divertono, non come ovunque, ma come qui: tutti i giochi sono manuali o matematici e quando uno indovina e arriva prima degli altri vuol dire che ha vinto.
Le scuole di comunicazione (primarie e secondarie) sono affollatissime e durano anni. D'altronde sono le sole, altre non ce n'è, perché non sappiamo insegnare nulla.
Si tira avanti aggiungendo caso a caso, esperienza a esperienza in un'accumulazione infinita.
E pure così non basta, perché in pochi anni ci si dimentica di ogni combinazione e bisogna tornare a impararle. Di solito la comunità si accorge subito di chi sta smarrendosi e lo blocca prima che diventi pericoloso a sé e agli altri. Di casi ne ricordo tanti; per esempio quello del vecchio Tira su col naso (pochi sono i nomi, bisogna arrangiarsi con perifrasi) che cominciò a confondere «limoni» con «timoni», e dopo una vita da agronomo non trovò piú nessuna rotta dentro di sé. 
La routine di tutti i giorni è accettabile. Una ventina, trentina di verbi fondamentali siamo riusciti a non perderli, e a usarli nelle circostanze appropriate. Solo che non ce la facciamo a passare dall'uno all'altro, non sappiamo da dove vengono e dove vanno: non siamo in grado di variarli, dargli un tempo, una maniera, una sfumatura.
Perché qui sta il problema essenziale: abbiamo perso tutte le sfumature. E con le sfumature i sentimenti che le accompagnano o le provocano. «Amare», ad esempio, ha un solo senso per tutti. Quando qualcuno pronuncia quel verbo, le associazioni logiche che produce la nostra mente sono sempre quelle e di lí non si esce: «forte bisogno fisico e fastidio per la mancanza dell'oggetto (esponente altissimo, direi dieci); possesso, matrimonio, figli, eredità, sesso secondo necessità». 
Ma io, io sono salvo, indenne. Io so i nomi, e le sfumature, e resto in attesa.
Intanto racconto.

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